mercoledì, maggio 16, 2007

Viaggio in Hokkaido - Prima parte




E alla fine, alla fine di tutto, c'è il bianco della neve.

Nella mia memoria di adesso, impresso nella pellicola avvolta dietro ai miei occhi, c'è il bianco della neve senza fine dei paesaggi del Giappone dei miei sogni.


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Arriviamo di buona lena alla fermata del treno, foto di rito che probabilmente non rivedrò mai più (i miei amici sono del tipo: te la mando col pc), e poi ci mettiamo in fila sulla riga per entrare nel treno ordinati.
Oramai è una procedura che scatta automatica e potente in me, anche con un certo orgoglio.
A volte, quando sono a casa, vado al bagno e formo ordinatamente file di una persona. Cosi mi sento più a mio agio con me stesso e rispetto le regole.

Il treno, un lungo vermone blu con su scritto Hokuto-sen, all'ingresso mostra un ambiente familiare: gente che gira in pigiama di notte, cuccette co e tendine pesanti tipo cinema, controllori inesistenti e soprattutto una sezione svacco degna di tal nome.
Unico difetto della sezione svacco: sedili autoriscaldati.

E allora tutti a dire anvedi, er Giappone, mica come gli altri paesi eh, che ti mettono il divanetto Ikea in arte povera ad alta incidenza emorroidale, qui funziona tutto, guarda mamma un bracciolo in vera piuma d'oca Hokkaidese accarezzata giornalmente da pornostar vergini, eccetera.

Dopo pochi attimi, però, faccia a faccia con la realtà.

Non scorderò mai la sensazione che ho avuto quando, dopo un 10 minuti seduto nello stesso posto, ho pensato di stare per deporre un uovo.
Mi guardo nello specchio, col cinese che mi guarda e anche lui intanto alza le zampe palmate e si sistema la paglia sotto al culo.

E allora tutti a cambiare posto quelle due, tre volte al secondo.
Tutti a guardarci e a pensare ehi, ma sono solo io che sento questo leggero bruciore allo sfintere.
E poi si ride, come al solito, mentre il cinese mi guarda i bargigli e muove di scatto il collo a sinistra, destra, sinistra.

Mentre mangio il Bento comprato alla stazione prima di partire, cambio due volte di posto, guardo la notte fuori dal finestrino e penso che ehi, cavoli, sto andando a vedere lo Yuki Matsuri.
Una volta, diversi anni fa, era il mio sogno di sempre.
Vedere le enormi statue di Sapporo, viaggiare dritto nel cuore dell'arcipelago.
Ma come ogni viaggio che si rispetti non c'è tempo per pensare, è tutto azione.

Mentre cambio di posto due volte, il tizio giapponese seduto con la moglie sul divano vicino a me si mette a ridere mentre pratico il mio cinese primordiale con gli amici.
E' che so de coccio con i toni, il resto fila dai, te intuisco anche quei due-tre kanji dal giapponese, quando serve.
Quando sbaglio la pronuncia intervallo le frasi con un po' di santissimo romano danteguera.
Il risultato è bellissimo, ma senza spettatori in grado di apprezzarlo mi sento la Magnani usata per i film di Tinto Brass.

La moglie del tizio seduto sul divano, schiava del keigo, non può fare a meno di scusarsi perchè loro occupano un po' di spazio sul divano, perchè il marito parla, perchè il marito accenna a parlare, perchè il marito ha appena respirato troppo mentre accennava a parlare, il solito esageratone.

Noi si ride sotto i baffi e si mangia il contenuto della bentoscatola bianca, io ho scelto carne di manzo e riso, ho le patatine fritte se mi sento fame dopo.

Ho finito e mi sparo una sessione di Yoshi's Island 2.
Cambio di posto due volte e poi do un'occhiata alla sezione svacco.
In fondo al vagone, che cambia posto 3 volte durante la mia occhiata, c'è una coppia di giapponesi che mi guarda come si guarda la laurea nella cameretta di Paris Hilton.

Hanno due bambini e facce annoiate stile ehi, ora ci vedi che siamo indaffarati coi fii, ma una volta si faceva anche noi sulla lavatrice a centrifuga, aregazzì.

Il bambino piccolo fa capoccella un paio di volte dal divano dei suoi, mi guarda, sorride e si nasconde ancora.
Io riprendo a giocare a Yoshi, che c'ho sto livello che devo pia i sordi co a calamita.

Di soppiatto, il bambino mi compare alle spalle, proprio quando stavo facendo er mostro finale.
Mi saluta, lo saluto, sorride.
“Anche tu vai a Sapporo?”, chiede.
“Si”
“Anche tu con la JTB?”, chiede.
“Si, eheh” (faccio la mia risata da adulto).

Alchè si appiccica a vongola a me che gioco al DS.
“Che giochi hai?”, chiede.
Qualsiasi gioco dico non la capisce, è piccolo.
Gli faccio provare Ouendan, a volte intuisce, a volte è de coccio, insomma è normale.

Non so perchè ma mi aspettavo che mi completava il gioco alla prima, bendato e coi pollici previamente spezzati da addetti della giuria venuti da paesi scandinavi.

Ogni tanto lo riprendo con la videocamera, e ogni volta che si sente inquadrato, credendo sia una fotocamera, mette le dita a V vicino al volto e sorride.
La scena mi fa tenerezza, lo ammetto.
Immagino i genitori insegnargli che ogni volta che vede un marchingegno simile ad una videocamera deve mettere le dita a V.
Non deve essere 'na storia facile, penso.

Quando ho finito la batteria del DS il bambino mi chiede a che anno di università sono.
Poi si va sulla filosofia spicciola: il bambino pronuncia la parola magica.
“Qual è il tuo Pokemon preferito?”
Beh oddio, c'era quello co le corna, come se chiama, comera, ce l'ho qui, aiutame anfame.
Mi arrendo, sparo un miserabile: Pikachu.

Il bambino mi guarda con due occhi tipo se avessi detto, durante la tesi di laurea, di credere fermamente alla verginità di Cicciolina.

Poi parte verso solo lui sa dove.
Quando torna, ha un libro colorato in mano.
Siede sul divano montando con le ginocchia, sorride e apre il libro di cartone fra le mani, il suo volto è sorridente e con un dentino un po' storto.
“Il mio preferito è questo”, mi indica.
C'è un coso colorato, alto e con un paio di hiragana a descrizione del coso.
Il bimbo mi guarda, apre una pagina e mi dice che quello è più forte di Pikachu.

E grazie, nun sei leale.
E allora apre ogni singola pagina e mi chiede, di quella pagina, quale sia il mio preferito.

Indico tutti quelli più buffi, e lui i migliori.
Il nostro gioco dura un dieci minuti abbondanti, e dopo l'ultima pagina Tacchan (questo il nome del piccoletto) scappa via con il libro da dove era venuto.

Bevo un po' di te, guardo fuori dalla finestra ed eccoti di nuovo Tacchan con un mazzo di carte, monta di nuovo sul divano con le ginocchia e apre la scatola blu con su disegnato Topolino.

Mi spiega le regole del gioco: venti carte a testa e chi ha il punto più alto vince.
Alchè ho pensato a quanto velocemente si andava d'accordo quando andavo in giro con il pallone sotto braccio, dentro quella busta di plastica, tanti anni fa.

Giro la busta, e boin, il pallone rimbalza.
Mi guardo attorno, si fa la conta e scelgo io il primo, ho il pallone.
Scelgo il più forte, e arriva uno nuovo.
“Regà, posso entrà anche io?”
“Ok, però stai in porta.”
“Vabbè, però famo portieri volanti, dai.”
“Okkei.”
“Va bene.”
“Okkei.”

“Okkei.”



Okkei.


-- Fine prima parte --