Certe cose, quando le incontri, restano attaccate per sempre.
Parli con uno e per sbaglio e ti trova un posto nello studio ovale della Casa Bianca, incontri un altro e non ti cambia niente per tutta la vita.
A volte rimando a mente le peripezie che mi hanno portato a venire a studiare in Giappone per il Master.
Tutti gli incontri e le persone che ti aiutano, quelle che non ti aiutano, i tentativi, i ripensamenti.
Ancora una volta insomma è Tokyo City, Annus Domini 2006, è Settembre e sopra le nuvole qualcuno di molto incazzato ha deciso di mandare acqua come non mai.
I bagagli pesano incredibilmente, non ho l’ombrello e a tutto questo va aggiunto il fatto che qualche genio ha deciso di impacchettarmi con del nylon la valigia all’aeroporto, prima della partenza.
Il risultato è un’incredibile verde fosforescente probabilmente visibile anche dal robottino della N.A.S.A., sul pianeta rosso.
Ogni tanto guardo verso l’alto e sorrido, nel caso facesse ancora foto.
Sono arrivato.
E’ sera, nella capitale giapponese.
Trascino a stento il macigno a rotelle fino alla metro.
Lo zaino sulla spalla è zuppo, e oramai pesa più della valigia stessa.
Ho contratto un principio di cifosi dopo circa 20 minuti.
Fra poco stavo pensando di cambiare spalla, ho sempre avuto un certo sesto senso per queste cose.
Entro in metro e compro il biglietto.
Devo scendere a Gotanda e francamente non ricordo le direzioni, ma come al solito è molto semplice.
Con le zavorre che porto, inserire i biglietti in un buco di 10 centimetri, riprendere al volo le valigie senza farle cadere, tirarle su prima che scada il tempo, infilarle di lato nel passaggio per le persone, passare anch’io tenendo le valigie davanti a me evitando di bagnarmi mi è sembrato decisamente sotto la media di Giochi senza Frontiere, per dirne una.
Ora sono in metro ma non posso sedermi: è piena.
Posso però ostacolare, con non poco imbarazzo, ogni singolo passante che cerca di uscire.
La gente mi guarda, guarda la borsa, mi riguarda.
Sono zuppo fradicio e la gente mi fissa.
Riguarda la borsa.
Mi rifissa.
Alcuni fanno la mano a conca davanti alla bocca e bisbigliano.
Mi sono cosi stufato che sono arrivato al punto di doppiarli mentalmente con frasi agghiaccianti.
A volte uso il toscano, a volte li penso con una voce da profonda Ciociaria.
La coppia davanti a me mi guarda e parlotta.
Nella mia testa, lui gli fa: “Guarda hara, eccià la borsa de shrekke”
Lei risponde: “Suvvia bischero, te tu un lo vedi che è impacchettata?”
Nella mia testa, questo tizio con l’Ipod che vuole che sposti tutti e 45 i chili di asino per farlo passare mi dice:
“A signò, sendimbò, che me fai passàaa? Che nun ce lo vedi che mpicci?”
E cosi via.
Finalmente sono arrivato a Gotanda, ridente località del centro di Tokyo il cui fondatore, probabilmente un invalido in carrozzella, è noto tra gli autoctoni per la sua mania di togliere le scale mobili.
Il suo motto era “Pensavi che er culo se lo dovemo fa solo noi handicappati?”
Ergo procedo ricordando a mente la sempre più affollata lista dei santi del mese di Gennaio.
A Gotanda devo trovare un edificio che praticamente è uguale a tutti gli altri edifici.
E’ facile però: questo edificio ha un nome molto uguale al nome di tutti gli altri edifici.
La mappa dell’agenzia dove ho affittato l’appartamento, che per l’occasione chiameremo la Chiarissimi S.P.A, è eloquente.
Un disegnino tipo la casetta di quando eri alle elementari, le finestrelle, gli omini che si danno la mano, er sole che ride.
Telefonini per contattarli non ce ne sono, i piccioni sono stati miseramente sostituiti da corvi in quel di Tokyo, quindi l’ultima alternativa è farsi la zona a piedi sotto la pioggia con il macigno di Sisifiana memoria.
Al contrario di Sisifo io spero di poggiare il tutto, e quindi mi dirigo verso qualcosa che sembra l’agenzia poiché molto più uguale degli altri palazzi uguali.
Entro, una ragazza risponde in inglese, ascensore, arrivo.
Mi apre la porta e mi guarda, la mia visione è per lei devastante.
Ha il self control roccioso, ma in realtà gli faccio una pena in stile bambino africano abbandonato all’Autogrill che cerca una mamma dal marito di Costanzo, la sera, su Canale 5.
Entro e mi chiede perché la mia valigia sia cosi.
Evito le battute sugli accessi di bile o le origini aliene e sparo la classica ma arguta: “è fatta per farsi notare”.
Ho collezionato una serie di battute argute sull’argomento.
Entro nella stanza e la tipa accende il condizionatore, poi mi guarda e mi fa: “Scusi ma deve togliersi le scarpe per il pavimento”.
Non ero più abituato a togliermi le scarpe per il pavimento.
Procedo. Litri di sudore misti a pioggia.
La tipa si ritira nella stanza, io mi metto sotto il ventilatore in preda agli spasmi sventolando la polo tenuta con due dita all’attaccatura delle spalle.
Mi porta un tè freddo che intimidisce al mio sguardo e si prosciuga da solo, all’istante. Fsss.
Si ritira di nuovo nella stanza.
Esce un tizio dalla faccia paffuta e un ciuffio che non segue completamente le regole dell’equilibrio e le leggi newtoniane.
Penso che un giorno scriverò un saggio sull’argomento.
Intanto che penso al ciuffo e alla sua relazione con l’antimateria mi dà la mano: è Shingo, il mio Landlord.
Parla un discreto inglese, attacca lui e io non faccio in giapponese perché se mi sfugge qualcosa è la fine.
Mi ripete circa 3 volte se ho capito tutto, forse la clientela media è over 90.
Per sicurezza, mi ripete ancora tutto una quarta volta, forse la clientela media è del regno dei funghi.
Alla fine è tutto ok: i soldi mandati non sono arrivati.
“Come non sono arrivati?”, faccio io.
“No.”
“E allora che si fa.”, gli faccio.
La mia espressione manifestava una certa minaccia attuabile tramite una semplice attesa sotto l’ufficio pe bucaie e rote.
“Tranquillo, non ti mando certo a dormire sotto il ponte”, ride, mentre il ciuffo pericolosamente segue traiettorie improbabili.
“E ce mancherebbe”, avrei detto io con le braccia sui fianchi come la Sora Lella.
Ma proseguiamo.
Il tizio mi fa firmare tre contratti in un modo che solo i giapponesi potevano pensare: praticamente le copie carta carbone vengono messe a lato dell’originale e io firmo in mezzo prendendo due fogli. Geniale.
Alla fine, insomma, ce l’ho fatta.
Ho la chiave di casa.
Pace.
Faccio per uscire e Shingo mi dice che gli piace la mia maglietta della Lonsdale, gli accostamenti di colore.
Sono i suoi preferiti.
E mo pure questa voi.
Comunque è un simpaticone e non fa problemi: a differenza dei tizi della precedente agenzia che avevo contattato, ci sa fare.
Esco: pioggia, metro, metro, pioggia.
Sono fuori dalla metro e ora devo trovare casa.
L’agenzia Chiarissimi S.P.A. ha colpito ancora.
La mappa potrebbe essere paragonata a quei disegni che si fanno di fretta per far capire le strade per le feste al liceo.
Due righe, devi girà a destra, poi a sinistra, non qui eh, dicevo qui, si qui, poi la trovi, mettemo i cartelli.
Certo.
Mi dirigo nella zona della mia casa, un uomo a brandelli.
Cosi su due piedi potrei essere scritturato per un ruolo drammatico nell’Amleto, Branagh non sei nessuno.
Ora trascino la valigia, a testa bassa, con passo in stile cavaliere colpito a morte che si tiene il fianco con la freccia spezzata dentro.
Trascino i jeans, un po’ troppo lunghi, che vanno a finire sotto gli scarponi dentro alle pozzanghere.
In una mano la maniglia del carrello, nell’altra la mappa zuppa per trovare casa.
Questi quattro disegnini per spastici.
Mi fermo ad ogni singolo portone passabile per un appartamento.
Disperato, tento invocazioni, tavolette Ouja, malefici.
Niente.
Giro e mi faccio due-tre stradine secondarie.
In casi come questi, la carta vincente è una sola.
Faccio pena ad una guardia, ancora vigile sotto un balcone per ripararsi dalla pioggia mentre fa la guardia ad un non meglio identificato traffico di aria e azoto illeggittimi, credo, visto che la zona è deserta.
Ride, mi guarda negli occhi ancora stretti sotto le sferzate della pioggia pungente.
Non sa di cosa stia parlando.
Mi fa: “Mi scusi, quale ha detto che era il nome dell’appartamento?”
Beh, io non lo so.
L’abbisso.
In sottofondo, parte la 5a di Beethoven.
Me ne vado-
La scena finale di Cavalleria Rusticana.
Gli oboe celebrano la sconfitta dell’eroe.
Mi allontano e continuo a camminare, trascino il mio fardello.
La mano stringe la freccia spezzata nel fianco.
Dopo due metri, cazzo, eccolo.
Mi balza un nome, torno, glielo sparo.
“Scai Coootoo Wa…? (Sky Court…?)
Ah si lo conosco, è qui.”
Visioni angeliche.
La primavera di Vivaldi.
Cori di Serafini, Arcangeli con ghirlande che illuminano il paesaggio, e le schiere dei Santi insieme, uniti al loro canto.
La guardia mi lascia con una pacca sulla spalla e un saluto, e io salgo.
Nell’ascensore penso a cosa farò non appena sarò arrivato.
Per ora apro la porta e accendo la luce, poggio a terra le valigie.
Sono a casa.
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To be continued….
venerdì, settembre 29, 2006
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